Oggi, Facebook, mi ricorda che il giorno 26 Agosto 2017 non fu una giornata leggera, di quelle che ti passano come se niente fosse. Oggi Facebook mi ricorda qualcosa che non vorrei fosse nei miei pensieri, mi ricorda qualcosa che ho cercato di riporre in un angolo ogni qualvolta mi sentissi triste, ma che puntualmente esce sempre fuori, questa maledettissima notte, o forse dovrei direi fortunatissima notte ? Già, perché esattamente un anno fa, esattamente a quest’ora circa, i medici di pronto soccorso del policlinico Tor Vergata di Roma mi fecero sedere. “ Non è semplice per noi, devi rimanere, ti prometto che ti troveremo un bel posto, magari al Campus che ne dici? Può rimanere mamma con te se questo ti fa sentire più tranquilla”, non capivo, o meglio capivo ma non avrei voluto. Mi chiamo Federica ho ventidue anni, e da un anno circa ho scoperto di avere un linfoma, un “bellissimo” quarto stadio. Nella mia testa tanti interrogativi ma quello più grande fu “ Uscirò mai da questa camerata? Quanto dovrò stare? Voglio uscire!” Non pensavo ad altro se non ad uscire e godermi quel poco di Estate che mi rimaneva, il mio ragazzo, le mie amiche e la mia famiglia. Strano come solo una notte possa cambiarti la vita, il tuo modo di pensare, di essere, di vivere. Fu proprio quella notte che iniziai a condividere i punti più salienti della mia permanenza in ospedale, le emozioni e i pensieri più forti, questo perché non sai mai quanto un social possa farti sentire parte di un “mondo”, possa farti sentire di avere uno spazio per gridare tutto ciò che hai dentro, possa farti sentire vicino a chi, come te, sta vivendo e provando ciò che vivi e provi tu! Sono successe tante cose in questo anno, un anno di lotte, sconfitte e vittorie, un anno di consapevolezze, troppe, persone perse e persone “acquistate”, persone “come me” che dinnanzi alla malattia hanno tirato fuori tutto, anche se quel tutto era colmo di rabbia e carente di felicità. Volevo dire alla Federica di un anno fa che alla fine sì, da quel bagno quel famoso bagno dove mi accovacciai per piangere sono uscita, mano nella mano con mia mamma, quella sera, questa sera di un anno fa ascoltai tutte le storie delle persone che ormai erano compagne di “camerata”. Ho ancora nel cuore te Luigi, che all’ennesima recidiva eri ancora la, mi parlavi di tuo figlio e dei tuoi nipoti, e alle mie tante domande sulla malattia mi risposi che la vita è fatta di attimi, e vale la pena viverla istante per istante. Mi parlavi sempre di tuo figlio e di quanto lui e sua moglie si impegnassero per preparati il pranzo ogni giorno, perché sai, quello che ti passano fa veramente schifo! Mi chiamavi “ bella signorina” e ogni mattina mi chiedevi come fosse andata la notte precedente. Venivo nella tua stanza, ti cercavo, volevo parlare con te, perché solo tu riuscivi a strapparmi un sorriso anche solo guardandomi. Non ho più tue notizie, ma spero che ovunque tu sia, con chiunque tu sia, sarai sempre sereno. Non voglio cadere nel banale e ringraziare “ tutti i medici che mi hanno seguita” e tante belle parole di contorno, però un ringraziamento lo concedo al medico che per la prima volta trovò il coraggio di parlarmi e dirmi la verità. Alle volte ci lamentiamo della freddezza, schiettezza di un medico, ma quella volta ( forse la prima ) capii che dietro quel volto serio e composto c’era tanta difficoltà, paura, di dire ad una ragazza di soli vent’anni che avrebbe dovuto affrontare un percorso molto duro che è quello chemioterapico. Sapete i medici quando si è ricoverati in una stanza da 16 persone cercano di fare il possibile, di essere presenti per tutti nonostante la mole di lavoro non indifferente, però notai che per me l’attenzione era diversa, tanto diversa che quando chiesi al medico cosa sospettassero prima di rispondere strinse le mani attorno al carrellino, sì quel carrellino pieno di fogli e cartelle cliniche, guardò la dottoressa specializzanda che era al suo fianco, lei mi sorrise, e poi mi risposero “ tranquilla, non è mica solido! È diverso, tu guarisci e rimarrai qua con noi, con i colleghi di ematologia”. Potevo ancora chiudere gli occhi ? La verità era lampante davanti ai miei occhi, scritta nero su bianco sulla mia cartella. Successivamente passai in reparto degenze, un reparto asettico, colmo di un silenzio così assordante, ma altresì colmo di tanti angeli infermieri e medici eccezionali. Tanti ricordi in quel reparto, tante paure chiuse in quella stanza che consideravo una prigione, tante guerriere e guerrieri che come me stavano affrontando un percorso simile. Ho voluto lasciare una piccola frase ma significativa nel libro che racchiudeva tutte le esperienze dei pazienti : “just because I’m losing , doesn’t mean I’m lost” ovvero, “ Solo perché sto perdendo non significa che io sia perduta”. Che dire? Che ad oggi ringrazio quella maledettissima ma fortunatissima notte di febbre, tosse, prurito, difficoltà respiratorie, per avermi donato un nome e cognome a ciò che portavo dentro di me da anni. Linfoma di Hodgkin, il mio fedele compagno. Federica P.