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Ci sono luoghi in cui il Natale sembra non poter entrare, come se fosse troppo bello e troppo inadatto alla tristezza e all’aria pesante che si respirano. E per quanto si provi ad addobbare un albero con palline e luci colorate, come se quella fosse la normalità, un abete in ospedale sembrerà sempre fuori luogo.

Ci sono luoghi in cui Babbo Natale non è l’anziano signore vestito di rosso con la barba lunga e bianca. Lui ha un camice bianco, uno stetoscopio al collo, un sorriso gentile e  dietro gli occhiali mostra due occhi buoni. Ha la magia in volto, anche se non scende dal camino. La sua casa non è fatta di legno e non c’è una finestra da cui guardare fuori la neve. E’ una stanza con le pareti di colore verde chiaro – verde ospedale, direi –  con qualche pallina colorata che ricorda al paziente di turno il periodo dell’anno e locandine o tavole anatomiche che invece gli ricordano in modo martellante dove si trova. Non ha un ufficio postale a cui spedire le lettere, ma un cuore grande per accogliere il dolore di chi gli chiede aiuto e i desideri silenziosi di chi vuole guarire. Quando sta per arrivare non suona una campanella, ma si schiarisce la voce e con tono delicato chiama i pazienti con il soprannome che ha scelto con un motivo preciso per ognuno di loro. La sua slitta è l’angolo di un letto su cui si siede e prende la mano del paziente ; le renne sembrano gli infermieri che lo aiutano o qualche studente che vuole imparare i segreti più nobili dell’arte della medicina; il sacco in cui ci sono i doni, invece, è una busta trasparente e asettica,  con una serie di sigle che diranno se si meritano  “caramelle o carbone” – ma lui saprà rendere meno amaro anche il carbone-  ed è pesante quel sacco, sì che lo è.    Non porta un regalo da scartare, ma solo sacche rosse per le trasfusioni o bottiglie di vetro con nomi che ricordano incantesimi di magia e fanno ripensare a quando si era bambini e si balbettavano le prime parole più difficili. Poi ci si accorge che la difficoltà è solo ciò che ancora non si conosce, e allora non fa più così paura.  Tiene la vita tra le sue mani,  vita che farà gocciolare nel corpo di qualcuno. Ed è premuroso quando dice che userà un ago cannula per lasciare in vena un catetere di gomma e non una fastidiosa punta metallica;  è anche simpatico quando chiede se si preferisce un colore in particolare.

Ci sono luoghi in cui non c’è nulla di straordinario che richiami la magia del Natale. Non ci sono famiglie sorridenti, persone ben vestite o con le scarpe lucidate. Ci sono solo essere umani che ancora riescono a sorridere e a essere riconoscenti per quel periodo di “festa” e che si vogliono bene in tutte le loro debolezze. Non c’è il buonismo forzato che si respira per le strade, ma un’aria che sa di freddo invernale e insieme di calore umano. Non ci sono braccia piene di pacchetti e regali, ma ricoperte da lividi e flebo che sanno ancora regalare un abbraccio. Non ci sono le ore interminabili alla cassa, ma estenuanti momenti in sala d’attesa. Non ci sono persone troppo prese dai propri acquisti per poter scambiare una parola con il vicino, ma camere sterili isolate, fatte di rigore di impenetrabili camici, di competenza e professionalità, di lacrime velate e paure nascoste. Non ci sono cene interminabili, pandori o dolci e non ci sono pellicce, ma mascherine e sapone antibatterico e bambini e adulti, uomini e donne, accomunati dallo stesso dolore. Non ci sono false credenze, ma gente che si affida al proprio Dio, se crede, e alla propria forza, se crede un po’ di meno.

Per questo torno sui miei passi e mi siedo, e guardo il corridoio e la fila di sedie sul lato sinistro che sembra raccontare storie di sofferenza o di gioia e mostrare volti segnati dalla malattia o dalla speranza. E allora mi chiedo se, insieme a quello delle nostre case, non conviene scendere in questo presepe per respirare un’ aria meno inquinata di quella del centro cittadino, per vedere come si sobbalza al nome di una diagnosi o di un farmaco, invece che a quello dei botti di capodanno, per farsi abbagliare dalla luce umana e non da quelle intermittenti che propongono sperperi, facendoli passare per doni.

E’ troppo semplice voltarsi dall’altra parte e dire che non si ha il coraggio di sentire o vedereil dolore. Non può esserci tristezza per chi non vive una realtà. Allora in questi giorni rivolgo il mio pensiero a tutti coloro che sono in ospedale o vivono momenti di difficoltà e a chi è troppo preso da se stesso per rendersene conto.

E’ solo la speranza di un Natale fatto di Amore incondizionato per il prossimo.

Quanto è miracoloso aprire il proprio cuore, quanto invece può essere falsa questa bontà natalizia.

Maria Cirillo



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