Andrea, mi manca tanto come amico e come guida. Certe volte penso che il destino metta sulla nostra strada delle persone per aiutarci a superare i momenti difficili. Il mio incontro con Andrea e con Stella, è stato infatti “profetico” per la mia consapevolezza personale.
Ho la passione per la scrittura, da qualche anno scrivo su un blog, e qualche mese fa, per la prima volta ho voluto partecipare ad un concorso di scrittura. E’ stato indetto dal messaggero e si chiama “donne che fanno testo”. Mi hanno dato un titolo sul quale sviluppare in modo creativo un racconto. Il titolo è “UN GIORNO TI SVEGLI E NON SEI PIU’ LA STESSA”. Dopo il mio incontro con Andrea e Stella, avevo molto da raccontare a riguardo.
Al momento, il racconto in versione ridotta (10.000 battute), è stato pubblicato sul sito del concorso, www.donnechefannotesto.it, alla sezione “biblioteca racconti”, nella data del 5 giugno (Ilenia Goffredo, “sono solo una donna).
Se vincerò, il mio racconto verrà pubblicato durante i mesi di agosto e settembre su una pagina del messaggero. Sapevo cosa raccontare: la storia del mio incontro con queste due persone straordinarie, che mi hanno aperto gli occhi su un mondo, prima di allora sconosciuto.
La versione che leggerete di seguito, è quella originale. spero vi piaccia e che in molti possiate fare download sul sito per me.
Ilenia.
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SONO SOLO UNA DONNA. (racconto ispirato al tema “un giorno ti svegli e non sei più la stessa”, lanciato dal concorso di scrittura creativa).
Le lenzuola mi si sono incollate addosso. Non hanno un buon odore perché non le cambio da più di una settimana. Sono arricciate lungo tutto il mio corpo: ho il lembo destro di questa specie di “sudario”, sotto la coscia destra, arrotolato, come se anziché aver dormito, avessi appena terminato un incontro di boxe. Anche tutt’intorno alla stanza c’è odore di chiuso. Provo ad aprire appena gli occhi, ma bruciano e li sento gonfi. I residui di mascara sembrano schegge. Non riesco a ricordarmi per quante ore ho pianto la notte scorsa. Penso di essermi addormentata solo per due minuti e di aver avuto flash di immagini per tutto il resto del tempo.
Massimo se n’è andato da cinque giorni. Conto le ore che mi separano dall’ultima volta che ho visto il suo viso, e che i nostri occhi hanno incrociato lo sguardo l’uno dell’altra. Stamattina invece, mi sarebbe piaciuto svegliarmi con l’immagine di quando i nostri sguardi si sono “trovati” per la prima volta. Quel giorno ero arrivata a lavoro insieme ad Alessandro, il mio collega e amico gay. Come al solito, ridevamo sonoramente, mentre trafelati raggiungevamo il punto di timbratura del cartellino. Ci premeva di più raggiungere la macchinetta del caffè, ma per forza di cose, dovevamo rispettare la puntualità, non tanto per paura di un “richiamo formale”, quanto per non dover recuperare il ritardo in uscita quel giorno. Massimo ci passò accanto guardandoci, puntuale come sempre, e proprio per quel motivo, la sua andatura era più rilassata della nostra.
Io ed Ale non passiamo mai inosservati quando camminiamo vicini: prima di tutto perché lui ha delle pettinature sempre all’ultimo grido. e in secondo luogo, perché ridiamo a crepapelle di qualsiasi fatto di cui parliamo. Ale è l’allegria fatta persona, e non si direbbe affatto, ascoltando a fondo la sua storia di sofferenza familiare.
“ma chi è questo Laura?! In quest’azienda oramai sono rimasti solo i cessi!!! Bei tempi quando li selezionavano per bene i nostri colleghi…ora sembrano usciti da un’inaugurazione del Leroy Merlin…” mi fece Ale sotto voce quel giorno, avvicinandosi al mio orecchio e tenendomi sotto braccio, con la sua vocetta da checca sprezzante.
non potei fare a meno di ridere e credo che Massimo in quel frangente si rese conto che ci stavamo prendendo gioco di lui. Di solito non sono una che critica il prossimo, ma quando sono con Ale, mi lascio andare a quell’atteggiamento burlone e un tantino antipatico che spesso gli omossessuali hanno nei confronti del resto del mondo. L’altro nostro amico gay, Daniele, sostiene che se sei amica di un gay, e riesci a farti amare da lui senza che ti critichi, puoi aspirare a diventare una grossa icona come Mina, Patty Pravo o Madonna.
ma se per caso te lo fai nemico, quello ti porta a farti terra bruciata intorno, rivelando al resto della gente, particolari di te “molto personali”. Oppure, parla male di te ad un milione di altre persone, raccontando cose non vere e facendoti spesso ritrovare in situazioni poco piacevoli.
io, il mio gruppo di amici gay li amo a prescindere. E loro amano me incondizionatamente…o quasi! Forse amo credere che un giorno potrò reincarnare la nuova Lady Gaga, e mi vedo con parrucche multi color che insceno coreografie, mentre canto canzoni che diventeranno le nuove hit del futuro!!! …chissà.
Era davvero così come aveva detto Ale: Massimo non è bello per niente, ma la prima volta che lo vidi, quel giorno, il suo viso mi piacque molto e me ne vergognai di fronte al mio amico senza ammetterlo, ridendo e avallando il fatto che lo “canzonasse”. I lineamenti magri e gli occhi affossati, semichiusi, erano stati penetranti e mi erano sembrati familiari. Mi ricordavano un amore adolescenziale…mi ricordavano gli occhi di un ventunenne di cui mi innamorai perdutamente quando avevo quindici anni. Era un amico di comitiva di mio cugino più grande, il primo che mi sfiorò il seno e le parti intime, nel passaggio dall’adolescenza alla giovinezza. Forse Massimo mi ricordava i baci che io e il ventunenne ci eravamo dati in un parco, in un giorno ventoso di primavera, ma col sole caldo, in cui io non ero andata a scuola falsificando la firma di mia madre sul libretto delle giustificazioni.
ho letto su un libro che millanta di spiegare le ragioni dell’innamoramento, che in qualche caso, a noi donne capita di perdere la testa per qualcuno che per fisionomia ci ricorda una persona che in passato abbiamo amato. Può essere un padre, un parente, o come nel mio caso, un amico che ci ha lasciato dei buoni ricordi.
tanto per non sfatare le regole di psicologia spicciola che leggo spesso su questi “saggi”, il ventunenne spezzò il mio cuore diciassette anni or sono, esattamente come Massimo ha fatto con me cinque giorni fa.
“devo alzarmi, devo fare una doccia, lavarmi i capelli, sistemarmi ed accendere il telefono, chiamare la mia amica, andare di là in cucina e far sapere al resto del mondo che sto bene…” ripeto a me stessa mentre sento che non ho la forza di muovere nemmeno un dito. Sono a letto da due giorni, chiusa nella mia stanza, e assaporo questo buio di tapparelle abbassate, perché volutamente non mi va che il sole entri. Non voglio parlare con nessuno, non voglio che nessuno mi faccia domande. Chissà cosa direbbe mia madre se mi vedesse in questo stato: non capirebbe: lei si è sposata a diciotto anni perché io “incombevo” nella sua pancia. Non credo che mi avesse desiderata, eppure sono arrivata lo stesso, e se oggi voglio starmene al buio, dopo che due giorni fa ho visto il mio ex con un’altra donna, forse c’entrano un po’ anche lei e mio padre, e tutta una serie di dinamiche che hanno risvegliato in me.
Esattamente è andata così: due sere fa ero di nuovo allo stesso punto di timbratura dove ho visto Massimo per la prima volta. Stavolta però entrambi finivamo il turno. Non mi vergogno ad ammettere che quando l’ho visto uscire dal suo ufficio, l’ho seguito per capire se l’avrei beccato in flagrante con la donna sulla quale avevo qualche sospetto. Noi donne, dobbiamo imparare a fidarci delle nostre sensazioni, ammettendo a noi stesse, che se un fatto negativo potrebbe accadere, per il semplice fatto che lo sentiamo dentro, probabilmente (e sfortunatamente!) accadrà. È inutile raccontarsi tante stronzate sul pensiero positivo, sulla teoria dell’attrazione, sul fatto che se pensiamo positivo, certi fatti “belli” ci accadono per forza.
Io due sere fa lo sapevo che li avrei visti insieme, e forse non aspettavo altro, per avere la forza di ammettere a me stessa che la nostra storia era finita per davvero. Ma non perché, come lui mi aveva raccontato, voleva stare da solo, o non voleva legami, o rifuggiva dall’impegno che poteva avere con me. Bensì perché quella che Massimo sognava accanto, nel suo letto, tra le sue lenzuola, nella cucina di casa sua, nella sua vasca da bagno, seduta a teatro o al cinema accanto a lui, non ero io, ma l’altra.
“perché non mi hai detto che volevi lei…perché non lo hai ammesso? Pensavi di preservarmi dal male Massimo? E invece, amore mio, di male me ne hai fatto di più…”. Ho questa frase in testa mentre mi scrollo le lenzuola di dosso, e rivedo la scena di me che cammino dietro di loro fino al parcheggio, mentre loro non si accorgono di niente. Rivedo me che percorro a piedi quei pochi metri, e mi sento come la protagonista di un film che viene tradita, e che non può credere a ciò che i suoi occhi stanno vedendo. Poi, sempre dal buio delle mie lenzuola, rivedo lui che apre la portiera della macchina di lei, e sta per salire, mentre lei è già seduta al posto di guida, ma sfilandosi lo zaino dalla spalla, si gira e mi vede. I nostri occhi si incrociano per l’ultima volta.
Avrei dovuto chiedergli perché non mi ha detto di volere lei quando mi ha lasciata cinque giorni fa, riempirlo di domande, essere assillante come solo noi donne sappiamo essere in alcuni frangenti in cui le risposte non sono state sufficienti, e invece gli passo accanto inerme, facendo finta però di essere una persona forte, una che ne è uscita già da parecchio tempo, e gli dico solo “ciao”, mentre lui mi guarda con degli occhi che sembrano dire “non volevo fartelo sapere così. Mi dispiace”.
“ciao Lauretta” risponde lui.
Dice solo questo, e so che è perché si vergogna di sé stesso. Glielo leggo negli occhi.
Mi chiama ancora Lauretta, come quando mi accarezzava i capelli dopo che avevamo fatto l’amore. Come quella prima notte a casa sua, quando mi sono alzata dal letto con addosso solo il completino intimo, e lasciandolo dormire, ho guardato le sue foto appese al muro.
“dove vai senza vestiti Lauretta? Copriti, ti prenderai un malanno…”
“dormi…” gli ho risposto io sorridendo. Ero innamorata cotta. Respiravo ogni singolo “odore” di casa sua impregnandomelo addosso.
certe cose, quando devono accadere accadono. E non c’è niente che possiamo fare per evitarlo. Alcune persone muoiono in incidenti tragici, perché quel giorno qualcuno ha deciso per loro che doveva andare così. Io, due giorni fa sono morta dentro, e a decidere di uccidermi è stato un uomo. Doveva andare così.
“Mi piace di te il fatto che sei diversa dagli altri nostri colleghi: sembrano tutti lobotomizzati, vivono in quartieri residenziali appena fuori Roma, conducono vite “schematizzate”, stabilite. Tu, non sei come loro e questo mi piace e mi rende felice di averti conosciuta…”.
Era stata una delle prime frasi che Massimo mi aveva detto quando ci eravamo incontrati. Era di un noioso pazzesco le prime volte che uscivamo: raccontava storie per le quali non nutrivo il benchè minimo interesse, e ogni volta che mi invitava per un nuovo appuntamento, un nuovo film al cinema, una nuova passeggiata, mi chiedevo che ci facevo lì, con un tipo dal quale non ero attratta fisicamente. Mi piaceva di lui che fosse un intellettuale. Che avesse all’attivo due pubblicazioni di romanzi e il terzo in preparazione, mentre io mi facevo strada nel mondo dell’editoria a fatica.
quando mi diceva che ero diversa dalle altre, rispondevo che era vero, perché per certi aspetti lo ero. Da un solo punto di vista ero come tutte le altre: “SONO SOLO UNA DONNA”, gli dicevo. E con questa frase intendevo descrivere l’essenza vera e comune di noi donne, quella che in una maniera o in un’altra, ci porta ad innamorarci. Possiamo condurre vite sregolate, essere manager, negarci una famiglia o scegliere invece di avere sette figli e un marito a cui essere fedeli. Possiamo essere brave donne di casa, o passare la maggior parte del tempo fuori. Possiamo seguire la moda, o decidere di non essere delle fashion victims. Possiamo amare i bambini, o non volerne affatto. Una cosa però ci renderà sempre uguali e uniformi: la capacità di innamorarci. In questo “particolare atteggiamento”, anch’io, che appartengo più alla schiera delle “indipendentiste”, mi identifico sempre. E dico sempre a me stessa e agli uomini che frequento questa frase: “sono solo una donna”, quasi a volermene scusare. Quasi a volerlo associare ad una debolezza. Non che gli uomini non si innamorino, ma le donne, (noi donne) amiamo di più, in modo diverso.
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“ma perché gli uomini che nascono, sono figli delle donne ma non sono come noi…amore, gli uomini che cambiano, sono quasi un ideale che non c’è: sono quelli innamorati come te…”. Radiosveglia, sono le sette. Riconosco nel dormiveglia le note e il testo di una canzone di Mia Martini. Devo muovermi. E’ il mio ultimo giorno di malattia. Ho dovuto “escogitare” qualcosa per chiudermi in casa e non vedere nessuno in questi giorni. Non ero malata fisicamente, ma mentalmente. L’idea di sistemare le pratiche della casa editrice in cui lavoro, gli incontri con gli autori, le date da fissare per le presentazioni dei libri, mi terrorizzavano. Volevo stare sola, non volevo vedere nessuno, né parlare con nessuno. In questi giorni ho provato a riprendere in mano dei pezzi della mia vita ripulendo la mia casa. Ho sistemato gli armadi, gettato via un po’ di oggetti di cui dovevo disfarmi. Ho formalmente chiuso con una parte di passato. In cantina c’era una scatola di giocattoli di quando ero bambina. Li ho ripuliti e disposti in una scatola nuova, di plastica trasparente, col preciso intento di regalarli a dei bambini bisognosi.
do un’occhiata sul web, cerco delle associazioni che abbiano bisogno di donazioni di questo tipo: il mondo della solidarietà è vasto e infinito: ovunque ti giri puoi donare, se ti va. Un euro dal telefonino, cinque euro alla posta, dieci euro dalla tua carta di credito, venti, dal tuo conto corrente. Io, i miei giocattoli di bambina, decido di portarli all’ospedale vicino casa.
Cammino per questo lungo corridoio, irradiato dalla luce calda del sole di primavera, con la mia scatola di giocattoli in mano. La tipa del box delle informazioni all’entrata dell’ospedale, mi ha suggerito di raggiungere il reparto di ematologia, e di chiedere di Stella. È una volontaria, una che può aiutarmi a disfarmi di questi giocattoli. Finisco di percorrere la corsia e ho di fronte una porta “oscurata”. È il reparto che cerco. La apro e non c’è nessuno. Mi guardo intorno e decido di entrare.
“dove vai senza copriscarpe?” una voce di donna alla mia destra mi blocca. Non ha un tono severo o antipatico, infatti mi sorride. “mi sa che sei nuova, se non sai che qui a ematologia, quando entri, devi indossare quelli, altrimenti i pazienti si infettano con una facilità mostruosa…” mi indica un tavolo, sul quale sono poggiati dei copriscarpe.
“mi scusi, io cercavo la signora Stella, ma se non c’è lei, posso pure lasciare questi giocattoli a qualcun altro. Mi hanno detto che in questo reparto ci sarebbero dei bambini che possono usarli durante la loro permanenza…” rispondo mentre poggio la scatola e obbedisco al fatto di indossare “quelle buste” sopra le scarpe.
“li hai lavati per bene almeno? I granelli di polvere possono essere letali…” continua lei rivolgendosi ai miei doni di bambina, con un tono tra il serio e l’ironico.
“come mi scusi? Certo che li ho ripuliti…ma se non ne avete bisogno, non si preoccupi, li porto al prete della chiesa del mio quartiere e non c’è problema…” il mio tono ora sa di affronto, e la donna che è dall’altra parte, sembra capire chi ha di fronte. Viene verso di me sorridendo.
“si vabbè, ci manca solo che li porti al prete! Ma non lo sai che i preti delle parrocchie di Roma, se vendono qualche pezzo di altare su e-bay, ci sfamano l’Africa intera?! Io sono Stella…vieni dai, che ti presento Andrea e ti mostro il reparto…” mi tende la mano “in segno di pace” e ora che ho indossato i copriscarpe, e la “guerra” tra noi è finita, mi fa strada all’interno del reparto.
In mezzo alla sala c’è un grosso bancone tipo reception, e tutt’intorno le stanze dei pazienti. Alcune stanze hanno le porte aperte e posso intravedere i letti con sopra le persone.
“lui è Andrea, sta da noi da diversi mesi ormai, ma è in attesa del trapianto, suo fratello gli donerà il midollo…presto si rimetterà alla grande. Andrea, questa è una nuova, si chiama…come hai detto che ti chiami?!”
tendo la mano al ragazzone che è appoggiato al bancone della reception e scherza con l’infermiera, mentre mi stupisco della familiarità con la quale questa donna parla di me senza manco conoscermi. Il ragazzo avrà si e no 27 anni e sulla bocca ha una mascherina, di quelle che indossano i medici mentre operano. Lo confonderei con un medico, se il suo pigiama-tuta non tradisse il fatto che anche lui è un paziente.
“come mi chiamo non te l’ho detto, ma tu mi hai detto che sei Stella. Piacere a tutti e due, io sono Laura, e ho questi giocattoli da donare al reparto. Sono puliti, funzionanti e non hanno parti che si ingoiano…”
“piano piano Laura. Il piacere è tutto mio” Andrea mi sorride da attraverso la mascherina. Glielo leggo dagli occhi. “bè ma ora che sei qua, non puoi mica andartene così…gli mostriamo il nostro ufficio Ste’?!” guarda la donna che mi ha accolto, con gli occhi da furbetto, e capisco che questi due mi stanno facendo “l’esame”.
Il reparto non è per niente un ambiente poco confortevole. Gli infermieri sono scherzosi e alla mano, e anche il colore della pittura sulle pareti non infastidisce la vista.
senza aver avuto il tempo di dire si o no, mi sono ritrovata in una stanza con dentro dieci cyclette di ultima generazione. Stella e Andrea mi hanno spiegato che si tratta di una delle ultime donazioni che hanno ricevuto da una palestra che doveva sostituirle con altre più moderne.
“è importante che i pazienti leucemici trovino il modo di “ammazzare” il tempo senza pensare che la malattia ammazzerà loro. Quindi l’attività fisica è determinante anche sulla mente…” mi spiega Andrea sempre con la mascherina sulla bocca, mentre insieme a Stella mi raccontano qualcosa di più del decorso della loro malattia. Stella è un’ex paziente. Sembra guarita ormai, è tornata a fare una vita normale, ma in quel reparto ci ha passato un sacco di tempo, entrando e uscendo, e tutt’ora è monitorata costantemente. Si è accorta di avere la leucemia due anni prima, una mattina che era andata a donare il sangue.
“dopo il prelievo stavo per andare a lavoro, ma mi hanno fatto subito un test e mi hanno detto “signora, Lei a lavorare non ci andrà per molto tempo: il suo letto in corsia è già pronto, dobbiamo ricoverarla.”
ascolto tutto, e piano piano divento una specie di “spugna” delle loro storie, e mentre parlano delle varie forme di leucemia e si raccontano, penso che fino a stamattina anch’io avevo una brutta storia da raccontare, ma loro due, rispetto a me, in quanto a brutte storie, hanno decisamente vinto.
ci spostiamo in una specie di ufficio. Stella si siede dietro ad una scrivania. Sul muro sono appesi quadri di fotografie in stile collage con dei visi di persone che evidentemente hanno frequentato il reparto. Alcune ragazze hanno un fazzoletto in testa, come a nascondere i segni di una terapia, e sorridono, altri sono stati fotografati sui loro letti, sempre con le facce sorridenti.
“quello che vedi in quella foto era Rino. Se n’è andato pochi mesi fa, eravamo coetanei…abbiamo diviso la stanza per qualche tempo…” mi racconta Andrea “eravamo buoni amici…”.
Non riesco a capire come queste due persone che sono davanti a me, riescano a parlarmi della malattia, della morte, e delle persone scomparse, con un tale atteggiamento di “normalità”. Anzi, tutta quella “normalità di espressione” mi sconvolge a tal punto che dopo un’ora di discorsi, esco dal reparto convinta di non volerci entrare mai più. Non mi farò mai più violenza, nonostante Stella, tendendomi la mano mi dica “è stato un piacere conoscerti. Segnati gli orari di visita, e quando torni, ricordati di metterti i copriscarpe: i germi possono provocare un raffreddore. E un raffreddore, qui può uccidere”.
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Invece, un giorno mi sveglio e non sono più la stessa. Sono passati sei mesi da quando Massimo mi ha lasciata. Il pensiero di lui c’è sempre, nitido e costante. I flash di noi, sono sempre presenti nella mia testa: me e lui a cena, sul divano a guardare la tv, al cinema, sul letto a leggere i suoi racconti (io, la testa poggiata sulla pancia di lui e lui, che mentre io leggo ad alta voce e gli chiedo “cosa volevi dire in questo passaggio”, si sofferma a spiegarmi il significato di una metafora). Però sono cambiata io, o meglio, è cambiata la prospettiva che ora ho della vita.
Non è vero che in reparto non ci ho messo più piede: il minuto successivo al mio incontro con Stella e Andrea, camminando lungo il corridoio del reparto, ho pensato a cosa potevo fare per loro e per me. Mi sono messa in moto da subito, non so nemmeno io da dove provenisse la mia forza, perché due minuti prima, volevo solo uscire di lì, raggiungere la mia auto nel parcheggio, cercando di ricordarmi dove fosse, e fuggire, dimenticando tutto ciò che mi avevano detto. Invece, ho chiamato tre amici, che fanno parte di tre band musicalmente molto lontane l’una dall’altra. Ho girato la città in lungo e in largo nelle settimane successive per cercare un teatro capiente che potesse ospitare almeno duecento persone. Ho “scovato” fonici, tecnici delle luci, simpatizzanti degli spettacolini nelle parrocchie di periferia, proprietari di strumentazioni, disposti ad affittare degli strumenti per suonare. Il mio amico pubblicitario ha stampato diecimila volantini gratuitamente. Li ho consegnati personalmente e appesi in ogni dove, nel tentativo di fare pubblicità all’evento. Tutti, hanno fatto la loro parte. Tutti, si sono ritrovati individualmente a mettere in moto una grossa macchina di solidarietà.
Oggi è il primo luglio del 2010. Siamo in tanti stasera a teatro, anche se la serata è particolarmente torrida. Sono sul palcoscenico insieme a Stella, e agli addetti ai lavori che mi hanno aiutata in questa impresa, la cui idea è partita tutta da me. Il concerto è terminato, non posso dire che sia filato tutto liscio: qualcuno all’ultimo minuto si è defilato, rifilandomi una “buca” pazzesca. È stato difficile mettere insieme tante persone, cercare di far “quadrare le cose”, soprattutto perché io non ne sapevo niente di organizzazioni di concerti e di musica. È stato difficile far capire alle persone cosa stavo provando dentro, e perché mi stavo mettendo così alla prova per la prima volta nella mia vita. Però ora, finalmente posso consegnare l’intero incasso della serata nelle mani di Stella, mentre Andrea purtroppo, stasera non può essere qui. È sotto controllo in ospedale, non può uscire da parecchio tempo, ma so che ci sta pensando, e qualche giorno prima del concerto, quando gli ho portato il volantino, mi ha chiesto se a Natale potevo organizzare un altro concerto benefico, perché in quell’occasione avrebbe suonato lui con la sua cover band. Gli si sono illuminati gli occhi, quando da attraverso il vetro dell’ “acquario” (così è denominata la zona all’interno della quale sono rinchiusi alcuni pazienti durante una terapia che non gli consente di avere contatti col mondo esterno, ma solo di vedere le persone attraverso un vetro), mi ha detto che aveva già in mente la location e che stavolta, avrebbero partecipato almeno tre quarti degli abitanti del suo quartiere.
Il giorno del nostro primo incontro, Stella mi aveva parlato di un macchinario che mancava al reparto. Mi hanno detto che ce n’era bisogno per effettuare degli studi sulle varie forme di leucemia, individuandole e isolandole nel minor tempo possibile.
a distanza di qualche mese, con questo concerto benefico, sono riuscita (siamo riusciti), ad acquistare il macchinario, che ora è in piena attività al reparto. Ma non abbiamo fatto solo quello: siamo riusciti a sensibilizzare quanti più donatori di sangue potevamo, convincendoli che una trasfusione sola, non è una goccia nel mare, se è vero come è vero che il mare è fatto di tante gocce.
a tutti quelli che stasera mi hanno chiesto come ho fatto ad organizzare un concerto benefico senza sapere nemmeno da dove iniziare, ho risposto: “non lo so nemmeno io…sono solo una donna…”
(Mentre scrivo, Stella ha fondato un’associazione, di cui è la presidente, poiché a quanto pare, le cose da realizzare e i pazienti da sostenere, sono ancora molti, così come la gente che come me, aveva voglia di svegliarsi una mattina e sentirsi diversa, spostando l’attenzione da fatti apparentemente irrimediabili, che paragonati a problematiche serie, assumono immediatamente un significato diverso in noi stessi. Non ce ne dimentichiamo, ma le lasciamo in quella parte della nostra mente, dove li facciamo diventare solo dei bei ricordi.
Andrea invece, non c’è più. Se n’è andato circa tre mesi fa, lasciando un vuoto incolmabile in un numero indefinito di persone, che come me, venivano ascoltate e consigliate amichevolmente da lui riguardo appunto, a quelli che sopra ho definito i nostri “problemi di persone inconsapevoli”. Andrea, andandosene a trent’anni, ha lasciato in me il “bel ricordo” di ometto forte che era. La forza che aveva, unita alla convinzione di poter sconfiggere una malattia che è stata più bastarda, deve servire da monito, a tutti quelli che non sanno da dove iniziare per avere una visione diversa delle loro vite. Era un amico mio, di Stella, di Silvia, di Rino – che ci hanno lasciati giovani anche loro – e di tutti quelli che oggi, per una ragione o per un’altra, fanno parte dell’Arcobaleno della Speranza.
Questo racconto è dedicato a lui, e a tutti quelli che combattono.
ILENIA GOFFREDO, “UN GIORNO TI SVEGLI E NON SEI PIU’ LA STESSA”.
Ciao a tutti io sono la ragazza di andrea…Non ho parole…ho i brividi….leggemdo ho rivissuto quei momenti…lui l’amore della mia vita il più grande!!!! Grazie ilenia …..comprendo a pieno quando dici :UN GIORNO TI SVEGLI E NON SEI PIÙ LA STESSA!!!!! Ricorderemo sempre chi ci hai insegnato ad amare la vita e a gioirne anche se non tutto va come vorremmo!!! la vita è un grande dono e forse io l ho capito pagando caro ma l ho capito!!!
Ricordo molto bene quando mi hai contattato per chiedermi dove potevi portare i tuoi giocattoli, ricordo bene quando ci siamo incontrate in reparto e c’era anche Andrea. Non pensavo che quell’incontro avrebbe poi cambiato una parte di te, sei rimasta unita all’arcobaleno sin da subito, e ti sei data da fare per sostenerci in tutti i modi, e mi piaceva l’amicizia che si era creata con Andrea, fino a quando siamo andate a dargli l’ultimo saluto.
l’arcobaleno è anche questo, far capire che bisogna vivere la vita cosi come viene, di non disperarsi per le cose futili, perchè i valori veri della vita sono ben altri.
Spero che leggeremo presto questo racconto sul messaggero e che possa essere una lettura “profetica” per molti.
Un grande abbraccio e in bocca al lupo 🙂
ragazze, non so davvero cosa dire. ORA, si che sono rimasta senza parole…io mi ricordo di Andrea come di un ragazzo che insieme a Stella, ha cambiato il mio modo di vedere le cose. non voglio dire che incontrando loro, si può evitare di vivere altri momenti difficili nelle vostre vite. però voglio dire, che dopo aver incontrato loro, forse si può dare il giusto valore ai fatti “veramente difficili”. anch’io mi ricordo benissimo del giorno in cui ho messo piede per la prima volta a ematologia. e tengo sempre vivo in me il ricordo di Andrea, “la roccia”, come lo chiamavo io. vi ringrazio tanto per avermi pubblicata e per il sostegno che mi state dando per il concorso. vi abbraccio entrambe. 🙂
<3<3 😉
ciao Ilenia, sono contento che la tua esperienza in questa storia ti abbia fatto del bene; io lavoravo, come infermiere, fino al mese scorso in dh ematologia a Firenze e so quindi di cosa parli; quando succedono certe cose nella propria vita o nella vita di qualcuno vicino, ti cambia proprio tutto l’assetto mentale nel vedere le cose sotto un altro aspetto e la cosa che s’impara di più è “dare il giusto peso e valore alle cose che ci accadono tutti i giorni”; i pazienti che ho conosciuto in quest anni sono stati per me una grande, immensa fonte di ricchezza spirituale, psicologica e morale. lo scopo del mio lavoro è stato sempre quello di ridurre la distanza della vita a casa con la vita ospedaliera, cioè farli sentire a loro agio, a casa loro, per quel che è possibile ovviamente, loro ti danno una forza incredibile nel fare le cose anche piccole a cui noi non daremmo nessun significato ma per loro sono importanti; una volta una nostra paziente abbastanza giovane mi disse: “quando vengo a fare la chemioterapia qui mi rilasso, mi sento a casa; parlo di tutto come se tutto fosse normale” ecco questo per dirti che dai pazienti ematologici c’è da imparare tanto pur nella disgrazia della malattia; ecco questo era quello che volevo dirti;
ciao ciao
jean pierre
ciao a tutti mi chiamo Marina, sono rimasta affascinata dal tuo racconto Ilenia, io ho conosciuto molto bene Andrea, posso dire che l’ho visto crescere, era un grande amico di mio figlio Alessio, che purtroppo non c’e’ piu’, anche lui se ne e’ amdato 7 anni fa con una malattia ematologica, il linfoma NH. Andrea e’ stato un grande, come lo e’ stato mio figlio, fino all’ultimo. nn lo dimenticheremo
Complimenti Ilenia tu si che sai come trasformare le emozioni in parole…sono stata anch’io in quei reparti e a natale quest’anno, ho aiutato ad addobbare l’albero di Natale, è indescrivile l’atmosfera che si crea eppure tu sei riuscita a descrivere tutto magnificamente!
Però io ho conosciuto Andrea fuori di lì, fu all’oratorio del Don Bosco, l’anno scorso, in occasione del torneo per Rino!
Un ragazzo così solare e buono…maturo e credo anche saggio rispetto agli altri ragazzi…una persona davvero vitale e di lui avrò sempre un bel ricordo dentro il mio cuore.
Un abbraccio grande!
Cara Ilenia, ho letto con molta attenzione il tuo racconto.
Delle volte pensiamo che alcuni eventi della nostra vita siano insuperabili ….
ma di li a breve è proprio quella stessa vita che ci sbatte in faccia altre realtà quasi per spostare la nostra attenzione su qualcosa di diverso, di veramente importante
qualcosa che involontariamente può modificare per sempre la nostra essenza.
E’ solo a quel punto che tutto diventa comprensibile, finalmente i nostri occhi cominciano a vedere, la nostra anima a capire e il nostro cervello a ragionare.
Sono contenta che nel tuo racconto sia stato ricordato il nostro Andrea, lui rispecchia in qualche modo le speranze, i sogni e le aspettative di tutti noi.
Insieme abbiamo fatto cinque mesi di day hospital… era grande, mai un lamento magari preferiva il silenzio, aveva sempre una parola di conforto e di coraggio per tutti, ha lottato con tutte le sue forze, la bestia è stata più forte ma lui la battaglia l’ha vinta ugualmente perchè è rimasto vivo in ognuno di noi. IL SUO RICORDO E’ PER NOI UN’ESEMPIO.
Un abbraccio
ANNA
non saprei quali altre parole aggiungere a ciò che di bello e profondo hanno già scritto, Jean Pierre, Roberta, Susanna, Marina e Stella. ho scritto anche troppo. forse è ora che il ricordo resti silenzioso ma vigile in ognuno di noi. una cosa però ancora la voglio dire: Andrea ha lasciato in tutti noi la stessa sensazione. la sensazione che anche lasciandoci, la sua forza, la sua volontà, la sua simpatia e il suo impegno, abbiano trionfato, regalandoci qualcosa. voglio pensare che certe persone (come lui), se ne vanno fisicamente, ma mai dai nostri cuori e dalla nostra testa. grazie a tutti, per avermi concesso del tempo leggendomi. a presto. 😉
CIAO SONO VANESSA AVEVO GIA’ DATO UNA SBIRCIATINA AL TUO RACCONTO..CHE OGGI HO LETTO INCURIOSITA DALL’ AVER LETTO IL NOME DI ANDREA.
RILEGGERE DI LUI E DI QUELLO CHE HA AFFRONTATO DA VERO LEONE MI HA FATTO UN PO’ RIVIVERE LA TRISTEZZA E IL DOLORE DEGLI ULTIMI GIORNI…..SCENDERE QUALCHE LACRIMA….MA LUI ERA TALMENTE GRANDE DA FARCI VIVERE SOLTANTO LA SUA IMMENSA VOGLIA DI VIVERE CON LA SUA MUSICA VIVRA’ PER SEMPRE IN OGNI PERSONA CHE HA AVUTO IL GRANDE PRIVILEGIO DI INCONTRARLO…GRAZIE PER AVER PARLATO DI LUI E DELLA SUA VITTORIA.
UN GROSSO IN BOCCA AL LUPO A TE E ANCORA GRAZIE PER AVERCI DATO L’OCCASIONE DI PARLARE ANCORA DI LUI….SARA’PER SEMPRE VIVO IN TUTTI COLORO CHE L’HANNO CONOSCIUTO.